Quando da Gerola si andava a Cortenova ogni tanto sostando vicino al "posamort"

Centro di documentazione e informazione dell'Ecomuseo delle Grigne

Pietro Pensa, Quando da Gerola si andava a Cortenova ogni tanto sostando vicino al "posamort" in L'Ordine, 12.1.1979.

Il culto dei defunti fu sempre assai vivo, e in forme che a volte mi hanno fatto pensare ad antichi retaggi pagani, addirittura celtici.

Quanto fosse considerato importante che le spoglie di un morto riposassero nella propria terra, concetto che anche recentemente ha visto povere famiglie non darsi pace sino a che le spoglie di un loro caduto in Russia o in Jugoslavia non furono portate nel cimitelo del paese, è provato da una singolare consuetudine che era ancora viva, da lago a monte e da valle a valle, alla fine del secolo scorso.

Gerola, villaggio posto nell'alto corso del Bitto, affluente dell'Adda presso Morbegno, era in tempi antichissimi un'alpe della Valsassina. Vi transitava la strada, assai battuta in ogni tempo, che dalla pianura lombarda conduceva in Valtellina; il suo nome, più che da riferirsi a gera, ossia a terreno franoso, è forse da trovarsi in un giar, simile al gare francese, o anche a jardin, luogo cintato di sosta, ossia stazione di passaggio. Un tempo vi stagionava gente di Cortenova, addetta ai vastissimi pascoli e, soprattutto interessata alla estrazione di ferro nelle vicine miniere del Varrone. La famiglia più importante in luogo era quella degli Acquistapace, che ancor oggi vi ha il maggior numero di fuochi, cosi come molti ne conta in Cortenova Valsassina. Altra casata notevole era quello degli Spandri, pure oggi presenti nei due paesi.

Ebbene, quando uno degli Acquistapace o degli Spandri moriva, la sua salma veniva trasportata da Gerola a Cortenova. Se si pensa che il percorso, attraverso la bocchetta di Trona sita a 2200 metri di elevazione, richiede in tempo estivo non meno di sette ore di cammino, è facile comprendere il sentimento che spingeva a un simile sacrificio. Raccontano che quando la morte accadeva in mesi invernali, durante i quali era impossibile praticare la strada, la salma veniva posta nel solaio della casa, chiusa in un blocco di neve battuta, in attesa che fosse possibile trasportarla. Lungo la valle del Troggia, che dalla bocchetta di Trona scende in Valsassina, vi erano, a intervalli opportuni dell'antica strada, brevi rientri, e io li ricordo, chiamati posamort, destinati alla sosta della bara per il riposo dei portatori.

Divenuta Gerola villaggio valtellinese, la sua gente acquistò molti terreni pascolivi nella piana di Piantedo, al confine tra provincia di Como e Valtellina, per condurvi gli armenti a pascolare durante l'inverno. Ebbene, quando in quel luogo, moriva un pastore, veniva portato a spalla sino a Gerola; di tal fatto vi è documento in atti notarili riguardanti una lite tra il parroco di Gerola e il parroco di Piantedo, i quali ambedue pretendevano i diritti del funerale!

Le cerimonie per la morte di una persona, vecchia o giovane, umile o importante che fosse, furono sempre oggetto di particolare attenzione. La sera dopo il decesso era d'obbligo a ciascun di far visita alla famiglia per condogliarsi e di vedere il defunto, che generalmente era disteso nel suo letto, coperto da un lenzuolo. Nella cucina di casa, già che per lo più il tempo delle morti era quello invernale o di inizio primavera, si teneva un caldaro sul fuoco e si offrivano patate e castagne ai visitatori.

La bara veniva portata al cimitero a spalla dai parenti stretti, in segno di devozione; il corteo si snodava in percorsi tradizionali, piuttosto lunghi, tali da consentire il distendersi degli accompagnatori. Ancor oggi nei paesi più conservatori la partecipazione al funerale è notevole. Un tempo, in alcune località era d'obbligo che almeno un rappresentante per focolare seguisse il feretro: a Dervio tale formalità era addirittura sancita dagli antichi statuti.

Quando il morto era persona di gran conto, si gareggiava a darsi il turno nel portare la cassa. Aprivano la processione le confraternite religiose con i propri paramenti, seguivano gli uomini di cui gli anziani tenevano una candela accesa nella mano; le donne, velate, chiudevano il corteo.

Benché proibito, l'antichissimo rito delle prefiche per il lamento funebre non era completamente scomparso al principio del secolo; le parenti del morto al distacco dalla casa e all'avvicinarsi alla fossa levavano pianti rumorosi, inframmezzati da frasi di dolore e da lodi all'indirizzo del defunta. Tale pessimo rituale era sconosciuto sulla riviera orientale, forse perché avversata sin dal medioevo dall'arcivescovo, antichissimo signore di quei borghi: gii Statuti di Bellano non consentivano infatti alle donne di famiglia di seguire il feretro, permettendolo alle estranee purché non piangessero; a nessuno, poi, salvo che agli affossatori, era consentito di accompagnare la bara dalla chiesa al cimitero.

Dopo il funerale, era consuetudine di riunire i parenti e chi era venuto da lontano e di offrire loro il pasto, che era piuttosto festoso. In proporzione alle possibilità finanziarie, venivano chiamati sacerdoti delle parrocchie vicine; era lustro per la famiglia una loro numerosa presenza. A casa del parroco, poi, era servito loro un lauto pranzo.

La cura dei cimiteri fu sempre assai discutibile, soprattutto nei paesi di montagna. Solo nei borghi della riva, già a metà del secolo scorso il camposanto era luogo dove, in un certo senso, si misurava il potere di una famiglia: presenza quindi di cappelle e di monumenti di marmo. Nei villaggi sperduti, invece, era facile che i cimiteri non fossero neppure cintati, che l'erba vi crescesse e che addirittura vi si trovasse del bestiame a pascolare. Io stesso ne vidi parecchi in tale deplorevole stato.

Una consuetudine che mi impressionò sempre da bambino fu quella della conservazione del teschio in nicchie praticate in lapidi immurate nelle cinte di alcuni cimiteri. Macabri e impressionanti, poi, erano alcune cappelle dedicate ai parroci, dove si conservavano ben allineati i teschi dei sacerdoti; ancora se ne vede un esempio nel cimitero di Gotro in Val Menaggio. Mi si raccontò che in qualche paese dove per la povertà generale non si muravano lapidi con la nicchia, quando si esumavano dopo anni le spoglie dei defunti e se ne gettavano i resti nell'ossario comune, i teschi venivano esposti sui muretti. Tale consuetudine mi fa ancor oggi pensare ai Celti che conservavano nelle loro case, ricavandovi apposite nicchie, non solo i teschi dei nemici uccisi ma anche quelli dei propri trapassati.

Trascurati che fossero, i cimiteri mutavan d'aspetto nella ricorrenza dei Morti. In quell'occasione, il cimitero veniva riordinato: si tagliava l'erba si ponevano fiori sulle tombe e la sera, si accendevano lumini con un po' di olio raccolto in gusci di lumaca.